Le infezioni correlate all’assistenza

Definizione

Con il termine “infezione ospedaliera” si intendono quelle infezioni contratte durante il ricovero, o dopo che il paziente viene dimesso, che non erano clinicamente manifeste ne in incubazione al momento dell’ingresso in ospedale (1). L’ampliamento dell’assistenza al territorio, quindi al di fuori
della struttura ospedaliera, ha reso necessaria una modifica del termine “infezione ospedaliera” in “infezione correlata all’assistenza” (ICA). ICA è un termine piuttosto recente che quindi racchiude tutti gli ambiti dell’assistenza. Con il termine infezione si intende “l’invasione o colonizzazione del corpo da parte di microrganismi patogeni” (2) e, come si può dedurre, l’infezione singolarmente non è sufficiente a causare la malattia. Perché ciò avvenga è necessario che l’equilibrio esistente tra
agente patogeno ed ospite venga meno.
Storicamente, le prime persone che si preoccuparono di infezioni correlate all’assistenza furono I. Semmelweiss e J. Simpson nella metà del 1800. Il primo dimostrò come l’ospedale rappresentasse un rischio per i pazienti (in quel caso notò che il tasso di mortalità per sepsi puerperale era molto
più alto nelle donne che partorivano in ospedale piuttosto che in quelle che non partorivano in ospedale) e che questo rischio era di origine infettiva, in quanto la causa erano i medici stessi e gli studenti che effettuavano le autopsie prima di assistere le partorienti, e soprattutto che era un rischio prevenibile attraverso il lavaggio delle mani con soluzione a base di cloruro di calcio.
J. Simpson evidenziò invece la correlazione tra il sovraffollamento dei grandi ospedali e la mortalità per infezione dopo amputazione degli arti; condizione che favoriva la trasmissione dei microrganismi patogeni da paziente a paziente. Entrambi non furono considerati adeguatamente al
loro tempo, e solo negli anni ’50 si affermerà la sorveglianza epidemiologica e l’epidemiologia ospedaliera come vera e propria disciplina.
Il tratto urinario, le ferite chirurgiche, l’apparato respiratorio, le infezioni sistemiche (sepsi, batteriemie) sono le quattro sedi interessate da circa l’80% di tutte le ICA. Le infezioni alle vie urinarie, che rappresentano circa il 35-40% delle ICA, sono le più frequenti. Negli ultimi quindici anni si sta tuttavia assistendo ad un aumento delle batteriemie e delle polmoniti e un conseguente calo delle infezioni urinarie e delle ferite chirurgiche.
L’uso abbondante di antibiotici e di cateterismi vascolari, fattori di rischio specifici per le infezioni sistemiche, sta alla base dell’aumento di queste ultime (1).

La catena delle infezioni

Perché possa insorgere un’infezione è necessario che un agente patogeno interagisca con un ospite suscettibile, che cresca e si riproduca su di esso e che sia in grado di passare da una sorgente ad un’altra; infatti la sola presenza del microrganismo non da necessariamente luogo ad infezione, ma perché ciò avvenga è necessario che si rompa l’equilibrio tra agente patogeno ed ospite. Questo meccanismo può essere schematizzato nella catena delle infezioni (3), dove l’agente infettivo, la fonte, la porta di uscita, le modalità di trasmissione, la porta d’ingresso e l’ospite suscettibile ne costituiscono gli anelli. Ogni anello della catena ha delle sue caratteristiche
particolari. Il primo anello della catena è l’agente infettivo, il quale può essere un batterio, un virus, un fungo o un parassita. La capacità di quest’ultimo di causare la malattia nell’ospite dipende da alcune  caratteristiche: la patogenicità, ossia la sua capacità di provocare un danno cellulare nell’ospite; la virulenza, che indica l’efficacia con la quale il microrganismo cresce e si moltiplica; l’invasività, cioè la capacità di penetrare i vari tessuti e la specificità, ossia la tendenza ad invadere uno specifico ospite, ad esempio l’essere umano o gli animali. Si può quindi affermare che più queste caratteristiche sono rilevanti e più l’agente infettivo sarà in grado di provocare una malattia.
Le fonti, dette anche reservoir, si identificano con l’organismo o l’oggetto inanimato nel quale il patogeno vive e si moltiplica. Possono essere quindi qualsiasi materiale nel quale il microrganismo trovi nutrimento o comunque riesca a sopravvivere rimanendo allo stato latente; ma può trattarsi anche di fonti umane, che si identificano nell’assistito o negli altri assistiti, o ancora nel personale sanitario o nei visitatori. L’agente patogeno può essere trasmesso ai pazienti da persone con malattia in corso, o che si trovano in periodo di incubazione, o ancora da portatori sani, ossia quella
persona in cui non si hanno manifestazioni sintomatiche della malattia nonostante la presenza del microrganismo patogeno. Anche la stessa flora batterica del paziente può causare contaminazione se viene trasferita in altra sede corporea dove normalmente non è presente, come ad esempio i
microrganismi endogeni del tratto gastrointestinale possono causare un’infezione se portati a contatto con i polmoni, le vie urinarie o in una ferita.
La porta di uscita è il mezzo con il quale l’agente patogeno lascia la fonte. Ad esempio l’escreato, il drenaggio di una ferita, il vomito, le feci, ma anche la puntura di una zanzara o gli escrementi degli animali, sono porte di uscita che permettono ai microrganismi di essere trasmessi.
Le modalità di trasmissione si riferiscono al modo in cui il microrganismo lascia la porta di uscita, o ne è prelevato, per poi essere trasmesso. Vi sono cinque vie principali di trasmissione:

  • Contatto
  • Droplet
  • Veicoli
  • Aria
  • Vettori

La trasmissione per contatto si distingue in diretto e indiretto; per diretto si intende “il trasferimento fisico di microrganismi tra una persona infetta o colonizzata e un ospite suscettibile” (3), quindi comprende tutte quelle manovre assistenziali che implicano il contatto con il paziente,
quali l’igiene, il cambio della medicazione o il posizionamento di presidi invasivi; per indiretto si intende invece la trasmissione dell’agente patogeno tramite un oggetto contaminato, come ad esempio un ago, un ferro non correttamente sterilizzato, o uno sfigmomanometro. La trasmissione tramite goccioline (droplet) avviene quando le mucose di naso bocca o le congiuntive di una persona vengono esposte alle secrezioni emesse da una persona infetta nell’atto del tossire, nel parlare o nel respirare; queste goccioline raramente superano i 90 cm di distanza e non rimangono a lungo sospese nell’aria. I veicoli sono oggetti solidi o liquidi che trasmettono l’agente patogeno, come ad esempio il cibo, l’acqua, o le infusioni contaminate. Per trasmissione aerea si intende invece la modalità con la quale l’agente patogeno viene trasmesso attraverso nuclei di goccioline o particelle di polvere di dimensione inferiore ai 5μm che rimangono sospese nell’aria per lunghi periodi di tempo, le quali vengono trasportate dalle correnti di aria e venire inalate o venire a contatto con la cute dell’ospite. Per quanto riguarda i vettori, questi possono essere distinti in biologici o meccanici: i vettori biologici sono animali viventi quali insetti o altro, che trasmettono i microrganismi patogeni attraverso punture o morsi; mentre i vettori meccanici sono oggetti inanimati che sono contaminati da liquidi biologici infetti.
La porta d’ingresso è la via di accesso che permette all’agente patogeno di entrare nell’ospite; quest’ultima si può identificare con gli orifizi o eventuali lesioni cutanee o delle mucose che alterano la naturale funzione di barriera. Le procedure infermieristiche che prevedono l’inserimento di sonde o cateteri nelle cavità corporee rappresentano anch’esse una porta d’ingresso per i microrganismi patogeni.
Infine, ultimo anello della catena delle infezioni, è l’ospite suscettibile, ossia la persona nella quale i meccanismi di difesa biologici non riescono a contrastare l’invasione dei microrganismi patogeni al momento dell’esposizione, come ad esempio nel paziente immunocompromesso.

Bibliografia

1. Epicentro. Infezioni correlate all’assistenza. Istituto Superiore di Sanità. Roma. Disponibile a: http://www.epicentro.iss.it/problemi/infezioni_correlate/infezioni.asp
Ultimo accesso: 10 Ottobre 2016
2. De Grazia S, Ferraro D, Giammanco G. Microbiologia e microbiologia clinica per infermieri. Pearson: 2012
3. Craven R, Hirnle C, Jensen S. Asepsi e controllo delle infezioni. In: Craven R, Hirnle C, Jensen S. Principi Fondamentali dell’assistenza Infermieristica. 5th ed. Volume 1. Rozzano
(MI): Casa Editrice Ambrosiana; 2013. 259-280

Un nuovo concetto di Salute

La nuova definizione di salute , a cura dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la quale sostituisce la vecchia defininizione del 1948, ha avuto una grande influenza sulla gestione del malato.
La vecchia definizione del 1948 indicava la Salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale, psicologico, emotivo e sociale”. Questa definizione introduceva la soggettività della valutazione e prendeva in considerazione non solo gli aspetti medici che, con il passare degli anni hanno stimolato inizialmente una valutazione globale della qualità della vita e, successivamente, il coinvolgimento attivo e attento negli interventi sanitari. Considerare la salute come uno stato di completo benessere ha prodotto un processo ec di medicalizzazione, volto a un globale benessere fisico, mentale, psicologico, emotivo e sociale. Per chi conosce la realtà medica è questo un traguardo spesso impossibile da raggiungere: obiettivo, questo, difficile da raggiungere.
È evidente, però, che dal 1948 a oggi il mondo è cambiato radicalmente. L’aspettativa di vita delle persone è aumentata e con essa anche il numero delle malattie croniche, spesso degeneranti e invalidanti. Nel paziente affetto da malattia cronica il lavoro clinico è legato ad altre attività di cura come per esempio il monitoraggio dei dati clinici e il controllo dell’evolversi della malattia in quanto la patologia procede con fasi improvvise di riacutizzazione o con caratteristica di prevedibilità. Pertanto, fondamentale è la presa in carico il paziente cronico per poter procedere con la programmazione degli interventi terapeutici . Si passa così da un approccio specialistico di tipo tradizionale ad un approccio incentrato sulla persona, sulla valutazione globale e multidisciplinare dei bisogni, per migliorare qualità di vita e salute.
In queste condizioni, purtroppo, il completo benessere fisico diventa ancor di più un traguardo irraggiungibile.
Ecco che , dopo anni di studi e di valutazioni , nel 2011 si è arrivati ad una nuova definizione di salute considerata “la capacità di adattamento e di auto gestirsi di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive”.  Definizione, questa, che sposta l’attenzione sulla capacità dell’uomo di convivere con la malattia nelle sue varie fasi. È chiaro che l’invecchiamento e la cronicità influenzeranno le modalità di valutazione dello stato di salute, però, attraverso lo sviluppo di risorse interne, tipiche di ciascun individuo, si possono affrontare con successo anche condizioni di malattia e di invalidità.
Quindi, se la definizione del 1948 poteva aver portato ad un eccesso di medicalizzazione con consumo eccessivo di risorse non sempre associato ad aumento dello stato di salute, ;la nuova definizione vorrebbe portare a un uso più razionale e mirato delle risorse con esiti positivi sulla salute delle persone. E’ importante garantire al paziente il miglior esito clinico, ritardando il sopraggiungere di conseguenze in termini di disabilità Il paziente imparerà a convivere con la sua malattia , prenderà maggiore coscienza del suo stato di salute e questo gli consentirà di autogestirsi e vivere anche in condizioni di irreversibile perdita di salute.